Cartoline dal fronte: commento ai materiali di Francesco Baraté.
Tra i materiali presenti all’interno del nostro Museo digitale compaiono anche le fotografie di nove cartoline postali provenienti dal fronte, riconducibili al periodo della Prima guerra mondiale, tutte gentilmente condivise con noi dalla famiglia dello studente Francesco Baraté della classe V A Istituto professionale. Le cartoline sono state spedite da due fratelli, Garbolo Severo e Garbolo Paolo, originari di Milano, alla loro famiglia, negli anni 1915, 1916 e 1917. Paolo Garbolo ha un profilo particolarmente interessante, deducibile dai fogli di congedo e da altra documentazione fornita dalla famiglia e messa a disposizione nel museo: classe 1899, partecipa alla Prima guerra mondiale nel cinquantottesimo Reggimento Fanteria, prima compagnia, con il grado di zappatore, e milita poi nella Resistenza partigiana, 120° brigata Walter Perotti, distaccamento “Cile”, per la liberazione di Milano dal nazifascismo. Garbolo Severo, invece, è attivo nella diciassettesima divisione, ottantunesimo Reggimento Fanteria, quarta compagnia con il ruolo di zappatore. Al di là dei contenuti delle cartoline, che si presentano come brevi accenni allo stato di salute dei due soldati, ciò che a nostro avviso risulta essere particolarmente interessante è l’apparato grafico delle cartoline, il repertorio di immagini e simboli presenti in esse che comunicano in maniera chiara i capisaldi della propaganda italiana nel corso della guerra. In esse infatti troviamo lunghe file di soldati pronti all’assalto, fieri e coraggiosi, fanti che combattono con forza e che cadono feriti per la patria, con la mano stretta sul cuore e il volto contratto in una smorfia di dolore; troviamo immagini colorate e in bianco e nero, che ritraggono soldati schierati in difesa dell’avamposto sul monte Baldo, e soldati caduti nella neve, cosparsi di sangue, sotto il filo spinato della trincea. Ma si riconoscono anche piccole carte geografiche che riproducono i territori coloniali italiani, Libia ed Eritrea, e immagini rappresentative del terremoto di Messina dell’anno 1908. In una cartolina troviamo una bellissima riproduzione delle stelle alpine, fiore tipico delle Alpi che i soldati stavano difendendo dal nemico sul fronte italiano. Ovunque dominano i colori della bandiera italiana (esempio: nella cartolina del soldato ucciso sulla neve, troviamo il bianco di sfondo, il verde nella divisa del soldato e il rosso nel suo sangue versato) e lo stemma dei Savoia; talvolta compare il ritratto di Vittorio Emanuele III. Brevi canzonette o versi di poesie completano il messaggio di queste cartoline, un messaggio fortemente patriottico e nazionalista, volto ad ispirare in chi le osserva uno spirito d’amore profondo per la patria e un senso di stima nei confronti del sacrificio che i soldati stanno compiendo al fronte per il bene della nazione. Nessun accenno emerge in queste cartoline al nemico: l’esaltazione del soldato italiano ha il sopravvento su ogni altra immagine. A cura della classe V A Istituto Professionale
Gli orfani della Prima guerra mondiale
Cenni all’assistenza agli orfani di guerra durante e dopo il primo conflitto mondiale. Introduzione La Prima guerra mondiale: una guerra nuova, moderna. Una guerra di posizione. Una guerra logorante. Un vero e proprio conflitto totale che ha coinvolto tutta la società civile, su più livelli: dalle industrie riconvertite per supportare lo sforzo bellico, alle donne poste per la prima volta al centro del mondo lavorativo, che intravedevano nel conflitto una possibilità di emancipazione. Tante le possibili definizioni della guerra 15-18. E un conflitto totale e moderno, per sua stessa natura, non risparmia nessuno, nemmeno i più piccoli: il mondo dei bambini viene attraversato da morte, mutilazioni, dispersione, stupri. Questi giovanissimi testimoni sono stati analizzati solo marginalmente alla storiografia. In queste brevi pagine analizzerò alcune situazioni specifiche contestualizzando l’emergenza orfani di guerra nella generale esperienza dell’Italia impegnata nel conflitto 15-18. L’Italia, la guerra e l’impreparazione legislativa L’Italia allo scoppio della Prima guerra mondiale aveva alle armi 248.000 uomini e appena 2.250.000 cittadini con obblighi militari e con un livello minimo di istruzione; a questi, nel corso dei quattro anni di guerra, vennero aggiunti altri 3.224.000 uomini. Furono chiamate alla guerra le classi dal 1874 al 1900 raggiungendo i 5.698.000 uomini anche attraverso il reclutamento di persone che erano state dichiarate fisicamente non idonee e persino dei feriti e dei malati, molti dei quali caddero sotto le fatiche della guerra. Secondo gli studi i militari italiani morti per diretta causa di guerra sono circa 680.000 che, sommati ai civili sempre per concause di guerra, diventano almeno 750.000. L’età media dei soldati caduti è di 25 anni e sei mesi e molti di loro erano sposati. La regione che ebbe le famiglie con almeno quattro figli al fronte fu il Veneto. Il numero dei grandi invalidi fu calcolato nel 1926 a 14.414. Conseguenza diretta di questa situazione è ovviamente un numero elevato di vedove e di orfani. Sulla base del censimento nazionale si stima che il numero di orfani di guerra in ciascuna provincia al 31 agosto del 1920 sono 262.535, mentre i figli degli invalidi di guerra assolutamente inabili al lavoro ammontano a 17.561, per un totale complessivo di 280.096. Udine risulta la provincia con il più alto numero assoluto di orfani, anche in rapporto al numero degli abitanti. Seguivano la provincia di Milano con 10.935, Roma con 9145 e Firenze con 8502 orfani. Secondo indagini svolte nell’aprile del 1921 la maggior parte degli orfani aveva un’età compresa tra i quattro e i dodici anni. Nella provincia di Udine, 6884 erano figli di agricoltori, 6050 figli di operai salariati, 183 figli di industriali e commercianti, 265 figli di impiegati e di professionisti. A guerra conclusa lo Stato deve chiaramente prendersi carico degli orfani di guerra e trovare il modo di gestire un numero così elevato di bambini e ragazzi a cui garantire assistenza. Nel 1915 l’Italia era impreparata alla gestione del problema degli orfani di guerra e ciò è testimoniato dal fatto che non esistesse una legislazione specifica; precedentemente erano nati due enti: l’Opera Nazionale di Patronato Regina Elena che aveva dato assistenza ai 4800 orfani del terremoto della Marsica e l’Opera nazionale Emanuele Filiberto di Savoia che aveva assistito gli orfani dei soldati che avevano combattuto nella guerra in Libia. Si trattava tuttavia di forme di soccorso che non prevedevano una vera e propria tutela e assistenza. All’indomani della Prima guerra mondiale, in cui il numero dei caduti aumenta ad ogni anno di guerra, si rende necessario varare delle leggi specifiche. Il regio decreto del 13 maggio 1915 istituisce dei soccorsi economici per le famiglie dei richiamati e nello stesso anno il governo stabilisce che il Ministero del tesoro conceda un acconto mensile della pensione presumibilmente dovuta a beneficio di vedove, orfani minorenni di soldati caduti in combattimento o in conseguenza alle ferite riportate. E tuttavia è la beneficenza privata ad assumersi più prontamente dello Stato alcune responsabilità. Nel 1916 si contano 38 orfani ogni 100 morti ed il 6 giugno del 1916 il Presidente del Consiglio Antonio Salandra presenta un disegno di legge per la protezione e l’assistenza degli invalidi di guerra e per la protezione e l’assistenza degli orfani di guerra. A tal proposito si tiene un lungo e complesso dibattito a fronte di un problema urgente. Il 6 agosto del 1916 viene varato il decreto luogo tendenziale numero 968 nel quale si definisce l’orfano di guerra. L’assistenza viene garantita ai figli legittimi e legittimati di soldati caduti in guerra o per le conseguenze dei danni riportati durante la guerra. Le norme delineano puntualmente le modalità di assistenza. I sindaci dovevano provvedere a redigere l’elenco degli orfani di guerra. Il ruolo dei comuni era fondamentale perché era l’istituzione più vicina al cittadino e aveva la possibilità di individuare le situazioni di necessità. L’elenco andava trasmesso al pretore del mandamento e al comitato provinciale di assistenza, istituito presso ogni prefettura. Nei comuni viene creata una commissione di vigilanza in cui figuravano anche un maestro e il parroco per il controllo della situazione familiare a garanzia e protezione degli orfani. L’impreparazione legislativa dello Stato italiano che negli anni della guerra aveva lasciato alla disperazione migliaia di famiglie colpite dal lutto, soccorse dalle congregazioni della carità e della beneficenza, fu in qualche modo compensata anche se con risorse che rimasero modeste e insufficienti rispetto ai bisogni effettivi. L’istituto friulano per orfani di guerra di Rubignacco e altre esperienze. Particolarmente interessante al fine dell’analisi della situazione sopra illustrata è la costruzione a Rubignacco di un grande istituto per gli orfani di guerra. È Giuseppe Girardini, ex alto commissario dei profughi, a destinare 1.200.000 lire alla costruzione di un orfanotrofio in provincia di Udine che avrebbe potuto accogliere in parte anche gli orfani del goriziano e della Venezia Giulia. Viene ricercato un fabbricato capace di ospitare 600 bambini con scuole e laboratori annessi e persino una colonia agricola. Anastasio Rossi, all’epoca arcivescovo di Udine, decide di vendere il seminario di Cividale del Friuli nei locali del quale viene allestito l’orfanotrofio. L’istituto diventa attivo
Crocerossine nella Grande Guerra: cenni all’assistenza sanitaria nel primo conflitto mondiale.
Durante la prima guerra mondiale le donne non hanno avuto un ruolo di primo piano solo nel mondo del lavoro, che per la prima volta le ha viste entrare in azione spesso in sostituzione degli uomini impegnati in guerra, ma anche nel settore dell’assistenza. Molte donne di estrazione borghese e aristocratica organizzano nelle varie fasi del conflitto raccolte fondi in favore dei soldati e delle loro famiglie, applicando le proprio nozioni di economia domestica nell’ambito del supporto a chi è impegnato al fronte. Allo stesso tempo, in prossimità delle trincee e negli ospedali militari, si sviluppa anche l’assistenza in campo medico, nella quale sono coinvolte donne volontarie della Croce Rossa: le crocerossine. Così Giovanni Bertacchi (professore universitario e autore di poesie su temi sociali e umanitari) scrive a tal proposito: “Sola, tu t’immergi dentro il vero dolor di quei conflitti!”. Sono versi dedicati alle migliaia di infermiere volontarie della Croce Rossa che prestarono servizio con generosità assistendo i feriti della Grande Guerra. Esse sono definite “volontarie della pietà” ma anche “angeli degli ospedali” e sono entrare in contatto a tutti gli effetti con il dolore, lo strazio, la morte, le ferite provocate dalla guerra. Ogni crocerossina, per poter prendere servizio, era tenuta ad esibire l’autorizzazione rilasciata dal padre, dal marito e dal fratello e doveva partecipare ad un corso (il primo si tenne a Milano nel 1906, successivamente poi a Roma); in questo modo iniziava per loro quella che spesso era la prima esperienza al di fuori dell’ambiente familiare, un vero e proprio salto verso un mondo cruento e pericoloso. Solo alcune di loro avevano già affrontato precedentemente un primo contatto con un’esperienza dolorosa: quelle che avevano prestato soccorso ai terremotati di Messina. Esse indossavano una divisa bianca composta da una lunga gonna e un velo e svolgevano diverse mansioni; quella più impegnativa era la cura dei feriti, che andava dal bendaggio della ferita all’assistenza ai medici; le infermiere cercavano sempre di diffondere conforto, accompagnando cristianamente i pazienti più gravi verso la loro morte, per farli sentire meno soli.La loro figura è più celebre rispetto a quella delle altre donne presenti nella Grande Guerra, perché erano presenti nelle retrovie, in ambienti caratterizzati da una forte presenza maschile e questa immagine venne sfruttata anche dalla propaganda. Allo stesso tempo, però, al fronte e negli ospedali le donne rossocrociate subivano molto spesso pregiudizi in merito al decoro e alla moralità di tale compito, ma anche scarso rispetto da parte d’infermieri ed ufficiali che non volevano ricevere ordini dalle infermiere. Il loro lavoro si svolse non solo nelle retrovie delle trincee ma anche in ospedali da campo e territoriali: ospedali veri e propri, ma anche strutture ricavate in ville e residenze messe a disposizione da famiglie facoltose, oppure vecchi opifici, o scuole e conventi. Gli ospedali territoriali furono in totale 204, con circa 30.000 posti letti; i pazienti curati raggiunsero la cifra di 700.000, con l’impiego di 7320 infermiere. Lavorare all’interno di queste strutture era certamente più agevole per le crocerossine, ma non privo di rischi: spesso questi ospedali si trovavano vicini ai luoghi di guerra ed erano dunque soggetti a bombardamenti (nel corso del conflitto vi furono violazioni nei confronti della neutralità delle ambulanze e del personale sanitario, a volte addirittura catturato e ucciso: tre infermiere italiane – Maria Andina, Maria Antonietta Clerici e Maria Concetta Chludzinska – vennero recluse nel campo di concentramento di Katzenau poiché rifiutarono di abbandonare il loro posto di lavoro dopo la disfatta di Caporetto, rimanendo accanto ai feriti non più trasportabili, per assicurare loro assistenza e conforto fino alla fine; ricevettero poi la prestigiosa medaglia “Florence Nightingale”) e altrettanto spesso in essi le condizioni igieniche erano insufficienti e aggravate dalla presenza di topi e pidocchi. Le prime crocerossine arrivarono sul Carso e in Valsugana nel maggio del 1915, al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra; secondo le stime più recenti furono circa 1090 quelle impegnate direttamente al fronte, mentre più di 10000 quelle dislocate negli ospedali territoriali, nei convalescenziari, nei treni e navi-ospedale. Alcuni dati parlano di un soccorso assicurato a circa due milioni di persone, tra feriti, malati e prestazioni di semplici cure ambulatoriali. Una famosa giornalista dell’epoca, Paola Baronchelli Grosson, racconta in un articolo pubblicato su “Scena illustrata” nell’ottobre del 1915 lo straordinario impegno della Croce Rossa nei vari paesi impegnati nel conflitto: “La parte della donna, nella Croce Rossa, è grande: e tale l’hanno riconosciuta i governi che non hanno esitato a ricorrere ufficialmente al suo aiuto, ad arruolarla come un milite dal quale si esige carità ed assistenza bensì, ma anche disciplina, silenzio, infaticabilità e prontezza. Nella guerra colossale che si combatte da quindici mesi, le infermiere della Croce Rossa hanno potuto dare intera la misura sia del loro valore, sia della loro utilità indiscutibile”. Assistenza, supporto morale, controllo dei farmaci in dotazione, preparazione dei ferri chirurgici, somministrazione delle terapie, riabilitazione: molteplici gli incarichi assegnati a questo esercito di carità. Mi soffermo ora su alcune figure di rilievo che hanno colpito particolarmente la mia attenzione. Sita Meyer Camperio Fonda nel 1908 la prima scuola ambulanza della Croce Rossa e nel 1912 del primo ospedale-scuola “Principessa Jolanda” nel quale si sono formate moltissime crocerossine. Impegnata al fronte durante la prima guerra mondiale, a partire dal 1917, stende un diario per raccontare le esperienze vissute durante il conflitto. In particolare descrive il suo arrivo a Sagrado Ospedaletto 75, che era appena stato bombardato: “tutte le ferite sono gravissime nell’ospedale più avanzato del Carso, ove si accolgono quelli che non possono tornare indietro”. Il suo diario termine con il 28 ottobre 1917 dal momento che, con la disfatta di Caporetto, l’Ospedale viene sgomberato; pochi giorni prima Sita annota che: “il momento è gravissimo! Il colonnello Perego viene a dare ordini tassativi per lo sgombero dell’Ospedale con tutti i feriti, gravi e non gravi: le infermiere debbono tornare alla loro base; i militi saranno caricati sulle auto-lettighe con i feriti. Tira un’aria cupa e spaventosa, un’atmosfera di morte; nessuno parla… i feriti, nei loro lettini, aspettano,
Busto Arsizio nella Grande Guerra.
Cenni sull’impegno della città di Busto Arsizio nel corso della Prima guerra mondiale. La Prima guerra mondiale: un conflitto per molti aspetti differente rispetto ai precedenti. Dalle armi chimiche ai sottomarini, dalla propaganda alla mobilitazione generale di donne e bambini impegnati nel lavoro in sostituzione degli uomini, il primo conflitto mondiale è stato un evento effettivamente innovativo nell’ambito della guerra. E l’intera società degli stati coinvolti si attivò a favore dello sforzo bellico. Letteralmente tutti lavoravano per la guerra, dai soldati che combattevano in prima linea nelle trincee, in condizioni di vita estremamente disagevoli e psicologicamente distruttive, ai più giovani impiegati negli opifici, alle donne che intravedono nel conflitto un’occasione di emancipazione. Fin dal 1915 in tutta Italia le varie città cominciarono ad attivarsi per supportare l’amata patria nello sforzo del conflitto. E così anche il comune di Busto Arsizio si attivò al più presto: la guerra nuova, con i suoi meccanismi, giungeva anche qui. Arrivavano le chiamate alle armi per 4500 soldati e la necessità di mobilitare la città. Busto Arsizio al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra attraversava un periodo di fiorente sviluppo: le sue industrie erano grandi, produttive e fruttuose, la città veniva abbellita con strutture in stile liberty e completata con ben tre edifici scolastici creati tra il 1903 e il 1911, e le associazioni di beneficenza promuovevano grandi opere sul territorio, come la costruzione del nuovo ospedale. Ed è proprio il generale stato di benessere economico della città ad aver consentito lo svilupparsi di una serie di iniziative a favore dei soldati impegnati al fronte e delle loro famiglie. Il 26 maggio del 1915, a due giorni dall’entrata ufficiale dell’Italia in guerra, il Comitato di assistenza e volontariato civile pubblicava il seguente manifesto: “Concittadini che restate! O voi tutti, nati troppo presto o troppo tardi per misurare sui campi cruenti la devozione e l’amore per la gran Madre comune, stringetevi con noi in un patto di solidarietà civile per costituire la milizia volontaria delle opere di difesa sussidiaria, di previdenza ed assistenza sanitaria, di integrazione dei pubblici servizi, di sussidi economici alle famiglie dei nostri soldati. Facciamo tutti un austero atto di disciplina e di fede per dare, concordi, pensiero, volontà ed azione alle necessità della patria. Donne bustesi! Vi chiamo a raccolta le voci più calde del cuore, il vostro largo senso di carità, il vostro sincero spirito di sacrificio. Date alle madri, alle spose, ai bambini, alle sorelle dei nostri soldati tutta la vostra bontà, tutta la vostra pietà, tutto il vostro soccorso! In alto i cuori! Già i nostri soldati nella marcia vittoriosa abbracciano sulle terre redente gli aspettanti fratelli d’Italia! Sia sempre vicino a loro tutto il nostro ardente pensiero, fatto di gratitudine ed amore, e solennemente promettiamo che sapremo assistere con tutte le forze della nostra commossa solidarietà le loro famiglie”. La popolazione di Busto viene dunque chiamata a svolgere la propria parte: si consolida così il Comitato di assistenza che con l’amministrazione comunale avvia un’intensa opera di supporto alle famiglie dei richiamati con la preziosa collaborazione delle industrie di Busto che si erano impegnate nel dare la metà dello stipendio dei richiamati alle corrispettive famiglie. Successivamente le varie iniziative vengono coordinate in un unico organismo che aveva il compito di raccogliere fondi, spedire pacchi al fronte, confezionare indumenti e supportare le famiglie dei richiamati secondo i bisogni. La raccolta fondi fruttò ben 400000 lire le quali servirono per l’apertura dell’Ospedale dei feriti, dei nidi per i bambini e per la distribuzione dei vestiti e dei sussidi. I primi feriti di guerra arrivarono a Busto Arsizio il 15 settembre del 1915 ed erano ben 400; questi furono tuttavia soltanto i primi poiché l’ospedale dei feriti di Busto ne ospitò in totale circa 4000: questi soldati erano accuditi dalle Infermiere Volontarie della Croce Rossa cittadina e vennero ospitati presso il vecchio ospedale, Palazzo Gilardoni, attualmente sede del Comune. Questi soldati provenivano certamente da varie regioni italiane, come testimoniato dal santino rinvenuto nella tasca della divisa di un soldato salernitano ferito in guerra e accudito a Busto Arsizio, oggi conservato presso l’aula di storia delle scuole medie Bossi, ma non è nota la presenzia di un registro che permetta di rintracciarne i nomi e le provenienze specifiche. Tutto ciò fu possibile grazie ai fondi che vennero raccolti durante le diverse campagne, in larga parte erogati dagli industriali della città. L’ospedale per i feriti costò 33827,05 lire, i sussidi che furono rilasciati raggiunsero un totale di 15327,21 lire, 10636,51 per gli indumenti, circa 2000 lire per i vari asili nido (costruiti nei quartieri Sant’Anna e San Michele) e il restante per i pacchi dono destinati ai soldati impegnati al fronte (che in occasione delle feste contenevano torroni, cioccolata, caramelle, panettoni, coppette, cartoline). Ma Busto non si fermò qui: si distinsero per disponibilità in particolare le donne che continuarono a supportare la patria, da chi diventava volontaria d’ospedale assicurando assistenza sanitaria e psicologica ai feriti, a chi accudiva i figli dei richiamati nei nidi, dalle donne che scrivevano lettere per i soldati facendo da interpreti per le famiglie a chi cuciva sciarpe, passamontagna, guanti, calze e vari altri indumenti da mandare al fronte. Persino i più giovani decisero di dare una mano, creando la sezione bustese dei Giovani esploratori italiani, i quali svolgevano compiti al fine di aiutare la patria e i soldati al fronte: facevano la guardia all’Ospedale militare e vendevano in città piccoli oggetti per raccogliere fondi. Purtroppo nel Natale del 1915 i cittadini di Busto, così come tutti gli italiani, cominciarono a realizzare che la guerra che stavano vivendo non era per niente una “guerra lampo”, anzi, si stava trasformando in una logorante guerra di posizione nella quale diversi soldati originari della città avevano già perso la vita o erano detenuti come prigionieri in Austria: a tal proposito venne avviata una nuova iniziativa che consisteva nell’invio del pane ai prigionieri di guerra. Erano invece i sacerdoti delle parrocchie cittadine ad assumersi la responsabilità di comunicare alle famiglie notizie relative ai caduti
I want you for U.S. army: commento al manifesto propagandistico.
Questo manifesto è stato prodotto dallo Stato americano nel 1917, in concomitanza con l’entrata in guerra nel primo conflitto mondiale. Esprime un messaggio chiaro e diretto mediante un’immagine e un testo sottostante. Invitando l’America tutta a prendere una posizione per quanto concerne il conflitto mondiale in corso, lo Stato esorta i cittadini ad arruolarsi nell’esercito statunitense. La scritta “I want you for U.S. Army” ribadisce con forza la necessità di una mobilitazione massiva della popolazione maschile del paese. Ed è proprio l’austero Zio Sam, rappresentazione personificata degli stessi Stati Uniti fin dall’epoca della Guerra di secessione, abbigliato secondo tradizione con elementi che rimandano alla bandiera americana (tra cui un cappello a cilindro con stelle bianche su campo blu), a puntare il dito verso l’osservatore, facendolo sentire l’effettivo destinatario del messaggio. Tutti i colori presenti nel manifesto rimandano alla bandiera statunitense: nell’immagine di Uncle Sam, nella scritta sottostante, nei bordi del poster. Il manifesto è stato realizzato da James Montgomery Flagg che ha utilizzato il suo stesso volto, in parte modificato, per ritrarre lo Zio Sam, e si è servito del veterano Walter Botts come modello. Flagg, nel corso del conflitto, produsse ben 46 manifesti di propaganda per il governo americano, molti dei quali includevano lo Zio Sam. L’autore si è ispirato, in questo caso, ad un manifesto del 1914 realizzato in Inghilterra per il reclutamento dei soldati in cui veniva ritratto il generale Horatio Herbert Kitchener che, con l’indice puntato, invitava gli inglese ad arruolarsi. La figura di uncle Sam verrà utilizzata per reclutare soldati anche nella Seconda Guerra Mondiale. R. Selmi – cl. V A Istituto Professionale
Britishers, you’re needed: commento al manifesto propagandistico.
Il manifesto, composto da immagine e testo, è stato realizzato da Lloyd Meyers nel 1916 per l’Esercito Britannico allo scopo di richiamare in patria, per prendere servizio sotto le armi, uomini inglesi che erano migrati in America negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della guerra. Il target di riferimento è dunque proprio quello di giovani uomini di origini britanniche trasferitisi oltreoceano. L’immagine veicola chiaramente il messaggio: un soldato inglese, rappresentato in divisa e con un’arma in pugno in primo piano, di notevole grandezza, collocato sopra l’immagine di Gran Bretagna e Francia (potenze in effetti alleate durante la Prima guerra mondiale), porge la sua mano destra ad un uomo in abiti civili rappresentato sopra gli Stati Uniti, con l’intento di trascinarlo saldamente verso sé. Il testo “britishers you’re needed” e “come across now” completano verbalmente il messaggio comunicato dalle immagini. A livello spaziale, il soldato è collocato in una posizione più alta rispetto al civile che, con la sua gamba destra piegata in avanti come a voler compiere un passo, sembra accettare la richiesta degli inglesi. Questo secondo personaggio simboleggia tutta la sua categoria ed è rappresentato, non a caso, con abiti blu, bianchi e rossi (cravatta) che richiamano la bandiera statunitense. Tra i due si interpone l’azzurro intenso dell’oceano Atlantico, che sarà teatro poco tempo dopo, al largo delle coste europee dell’affondamento del transatlantico Lusitania, che velocizzerà la scelta americana di prendere parte al conflitto direttamente. Agnese Rimoldi – cl. V A Istituto Professionale
La bestializzazione del nemico: analisi immagine propagandistica.
Il messaggio di questa immagine propagandistica è rivolto alle potenze europee opposte ad Austria e Germania e ai cittadini britannici nell’intento di comunicare un’immagine disumanizzata del nemico tedesco che aveva scatenato la Prima guerra mondiale. L’immagine è stata dunque evidentemente prodotta nel corso della prima fase del conflitto. Il suo fine è quello di rappresentare i tedeschi in forma “bestializzata”: essi vengono ritratti come animali, nello specifico come maiali, operando una scelta molto efficace dal punto di vista comunicativo. I maiali sono associati, nell’immaginario comune, alla sporcizia, al fango e sono oltretutto onnivori, possono nutrirsi perfino della carne e delle ossa di un uomo. Della loro natura umana restano nell’immagine soltanto elementi accessori come gli occhiali, il tipico copricapo tedesco e un gagliardetto appeso alla coda del maiale in primo piano. Essi stanno aggredendo una figura femminile che giace a terra in una pozza di sangue; ella rappresenta l’infermiera britannica Edit Cavell, divenuta personaggio ricorrente nella propaganda britannica, la quale aveva aiutato entrambe le fazioni militari in Belgio e che perciò era stata giustiziata. Le dimensioni e la posizione dei maiali rispetto alla figura umana rendono l’idea dell’oppressione tedesca sull’Inghilterra e sulle altre potenze europee e la presenza stessa dell’infermiera uccisa rimanda al tema della partecipazione femminile al primo conflitto mondiale che in molti casi vede le donne propriamente impegnate nel soccorso ai militari feriti. Ma nella loro stessa natura questi maiali rivelano un altro messaggio importante: di questi animali, com’è noto, si può mangiare praticamente ogni parte. Dunque il nemico tedesco, per quanto attualmente incombente, può essere disintegrato dalla potenza militare dell’Intesa. Le scelta dei colori vede un rosa predominante nei maiali, il bianco nella figura dell’infermiera (sia il suo viso che il suo abito appaiono candidi, ad esprimere innocenza) ed il rosso del suo sangue versato a terra. L’autore di questa immagine altamente evocativa è Louis Raemaekers, un disegnatore e vignettista olandese noto per il suo pungente umorismo anti-tedesco. Vito Pagano – 5° A
Women! Help America’s sons win the war: commento al manifesto propagandistico.
Questo manifesto, datato 1917, è stato realizzato da R. H. Parteous su richiesta del governo americano per promuovere la raccolta di fondi a sostegno della guerra. Al centro dell’immagine notiamo la presenza di una donna abbigliata secondo la moda del tempo, in piedi davanti alla bandiera statunitense, sullo sfondo cupo e inquietante di un oceano travolto dalla tempesta nel quale si riconoscono sagome di soldati uccisi e, in lontananza, i fuochi della battaglia. Soffermandosi sulla donna vediamo che ha le braccia aperte e tese in avanti, come a voler aiutare e sostenere qualcuno. Il suo volto è disteso, sorridente e rassicurante e sopra di lei la scritta “Women! Help America’s sons win the war” completa il messaggio: il manifesto infatti si rivolge proprio alle donne chiedendo loro di fare la propria parte nello sforzo bellico americano per supportare i soldati, in qualche modo figli di tutte le donne del paese, a sconfiggere il nemico. Alludere ai soldati come a dei figli amplifica l’effetto del messaggio perché fa leva su di un’emozione che certamente poteva convincere le donne: il senso di responsabilità per il destino dei figli della nazione impegnati nel secondo conflitto mondiale. Nella parte più in basso del manifesto troviamo chiarita la natura di questo aiuto richiesto alle donne: dovrebbero infatti acquistare alcuni titoli di Stato per finanziare economicamente la guerra. La data 1917 e la natura del messaggio ci riportano al momento dell’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale accanto alle forze dell’Intesa, a seguito dell’affondamento del transatlantico Lusitania. Valentina Lamesta – cl. V A Istituto Professionale
Cacciali via, sottoscrivete il prestito: analisi del manifesto propagandistico.
Questo manifesto, a differenza di molti altri dell’epoca che miravano ad arruolare sempre più soldati da inviare al fronte, si pone l’obiettivo di esortare la popolazione italiana a sottoscrivere prestiti indispensabili allo Stato per sostenere i costi bellici, mediante un’illustrazione e un testo scritto. Nell’immagine, realizzata da Ugo Finozzi, appare un soldato italiano pronto all’azione, che si protende verso la guerra, armato di una baionetta, con un viso serio e coraggioso; la sua figura è collocata su una sorta di piedistallo grigio che fa da sfondo alla scritta, come se ancor prima del suo sacrificio egli stesso possa considerarsi un eroico monumenti ai caduti di guerra. Egli è rappresentato su uno sfondo che rimanda all’immagine dei fuochi della battaglia, alle fiamme, agli scontri militari. Una donna alle sue spalle sembra spingerlo all’azione. L’immagine comunica dunque che lo sforzo ed il sacrificio dei soldati italiani è volto alla protezione della popolazione civile, rappresentata dalla donna e dal bambino che tiene tra le braccia, le cui espressioni trasmettono orrore e paura. Ma affinché il soldato possa realmente “cacciare via” il nemico austro-tedesco è necessario che tutto il popolo italiano acconsenta ai prestiti di guerra, così da garantire allo Stato italiano il necessario finanziamento. Ciò ci rimanda ad un aspetto caratteristico della Prima guerra mondiale, ovvero alla mobilitazione generale della popolazione civile per il conflitto: in effetti, mentre il soldato si troverà in trincea sarà compito della donna sostituirlo nelle sue mansioni lavorative. Si notano con evidenza i colori della bandiera d’Italia presenti. M. Del Vita – cl. V A
Your country needs you: commento al manifesto propagandistico.
In questo manifesto propagandistico inglese, che unisce immagine e testo, vediamo rappresentato Lord Horatio Herbert Kitchener, Segretario di Stato per il conflitto, eroe di guerra e fine stratega, che, indossando il copricapo da feldmaresciallo e presentandosi con i mustacchi tipici del look maschile della sua generazione, con sguardo serio, deciso e sopracciglia aggrottate punta il dito verso lo spettatore chiamandolo al suo dovere: partecipare alla guerra, evidentemente arruolandosi nell’esercito britannico, per sostenere il proprio paese. Il target di riferimento è certamente da individuarsi nei giovani ragazzi britannici, ma l’affermazione “your country needs you” potrebbe anche essere rivolta a tutta quella popolazione civile che partecipa al conflitto senza tuttavia trovarsi al fronte: il riferimento potrebbe essere dunque ad una necessaria mobilitazione sociale generale al fine di sostenere lo sforzo bellico. Questa illustrazione è stata prodotta dall’artista Alfred Leete ed è stata pubblicata per la prima volta sulla copertina del settimanale London Opinion, in data 5 settembre 1914. Nel giro di breve tempo, per volere del Comitato Parlamentare di Reclutamento, tutte le vie inglesi vennero tappezzate con manifesti che riportavano proprio questa immagine, al fine di ottenere l’arruolamento di un numero elevato di soldati volontari: lo spirito patriottico e la campagna propagandistica messa in atto consentirono di reclutare, nel solo primo mese del conflitto, circa 500.000 uomini. M. Beltrame – cl. V A